Che bel romanzo. Bassani e il giardino dei Finzi Contini attraverso un mosaico di immagini e parole tratte da quotidiani, periodici e riviste del 1962 - page 12-13

Nella prefazione alla prima edizione (Odessa, 1908-11, ora in
Schocken Books Inc., New York, 1992) della loro immensa
opera
Sefer Ha-Aggadah
(
Il Libro delle Leggende
), Hayim
Nahman Bialik e Yehoshua Hana Ravnitzky affermavano che
l’
Aggadah*
era «la principale forma letteraria» del Popolo
Ebraico, l’«espressione classica del loro spirito». Prodotto
della creatività di generazioni di rabbini, le
Aggadot
sono «un
palazzo meraviglioso» nel quale «vivevano permanente-
mente lo spirito e l’anima degli Ebrei».
una favola, una leggenda o un racconto possono apparire a
prima vista poca cosa: l’occasione per un sorriso o una lacrima,
per un sospiro o per l’intuizione di un momento. In alcuni casi
i racconti, poco prima di perdere il loro incantesimo infantile,
possono anche dare nuovo splendore ad antiche verità, ricor-
dandoci cose che in realtà abbiamo sempre saputo.
Ma a volte capita tutt’altro. Quando diventa un coro di storie
collettive, che riecheggiano attraversando le generazioni, il
narrare acquista una forza non comune.
Questo è ciò che avviene con le narrazioni, antiche moderne
e contemporanee, degli autori ebrei. Come dice Ellen Frankel
nell’introduzione alla sua opera
The Classic Tales. 4,000
Years of Jewish Lore
(Northvale, New Jersey, 1993): «In loro
presenza, diventiamo ascoltatori, prestando orecchio all’an-
tica chiamata “Ascolta, Israele!” Le nostre stesse vite diven-
tano, realmente, parte del racconto. (...) Impariamo ad inter-
pretare la Storia, non soltanto a registrarne i fatti, spostando
e riavvolgendo nella nostra mente ogni evento, fin quando
non gli troviamo la giusta collocazione all’interno del rotolo
sacro, la pergamena invecchiata dal tempo della nostra espe-
rienza collettiva.»
Ma cos’hanno in comune le narrazioni ebraiche? Non le
ambientazioni e i luoghi, giacché gli ebrei hanno vagato,
migranti loro malgrado, per tutta la terra, e gli autori del
Popolo d’Israele han preso a prestito dalle genti con le quali
hanno convissuto paesaggi, climi e persino fantasie. Non i
personaggi e i protagonisti, perché, nei secoli, li abbiamo rap-
presentati o recitati tutti: saggi, servitori o schiavi; principi,
principesse e malvagi; mercanti, banchieri, avvocati; medici,
ciarlatani e scienziati; madri, poetesse, nutrici, prostitute e
donne coraggiose; pazzi, profittatori e profeti. Non la lingua:
gli autori ebrei dell’antichità hanno scritto in ebraico, ara-
maico, latino, greco; nei primi secoli di diaspora in arabo (ad
esempio Moshè ben Maimon, conosciuto come Maimonide o
RaMbaM), nel Volgare dei primi autori dell’Italia Comunale
(per esempio, come Immanuel o Manoello Romano, Roma,
c. 1261-1335), in spagnolo, portoghese, nelle lingue Romanze;
poi Ladino, Bagitto livornese,
Yiddish
e i vari dialetti regionali
giudaico italiani; e in francese, in tedesco, in inglese, russo,
ungherese. E ovviamente in italiano.
Le storie che raccontiamo su di noi hanno in comune la nar-
razione biblica, la promessa antica fatta da Isacco ad Abramo
di raccontare quei fatti alla generazione successiva. Così è
nata la Storia: memorie trasmesse di padre in figlio e di
madre in figlia. E via via che i secoli passavano si sono
aggiunte nuove voci, perché la tradizione ebraica, orale e
scritta, non è nulla di più o di meno di un’interminabile con-
versazione fra generazioni. Lingue diverse, voci diverse
hanno però creato un’unitarietà così straordinariamente
potente che le storie che gli ebrei hanno raccontato su se
stessi sono diventate, spesso, storie di tutti, ebrei e non ebrei.
Si pensi ai tremendi padri di Freud e Kafka o alle tremende
Così è detto
Narrazione, memoria e storia nella cultura ebraica
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Raffaella Mortara
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