Che bel romanzo. Bassani e il giardino dei Finzi Contini attraverso un mosaico di immagini e parole tratte da quotidiani, periodici e riviste del 1962 - page 14-15

Anche la sua bibliografia è arcinota, impossibile riassumerla
in poche righe.
E scorriamo velocemente l’indice dei nomi di una qualsiasi
enciclopedia della Letteratura italiana del ‘900: solo per
citarne alcuni, in stretto ordine alfabetico, Edith Bruck,
Leone Ginzburg, Natalia Ginzburg, Carlo Levi, Elsa
Morante, Sion Segre Amar, Alberto Vigevani.
La letteratura italiana del secondo dopoguerra è stata l’ele-
mento trainante della narrazione della Shoah: con Primo Levi
e
Se questo è un uomo
(De Silva, 1947 in tiratura limitatissima,
poi Einaudi, 1958), e con
La notte
(pubblicato in origine in
francese
La Nuit
nel 1958, éditions de Minuit) dello scrittore
rumeno-americano Elie Wiesel, il mondo viene a conoscere,
attraverso la testimonianza diretta di chi li ha vissuti, i crimini
mostruosi che vennero perpetrati dai nazifascisti in Europa
contro gli ebrei (ma non solo) durante la Seconda Guerra
Mondiale. L’ignominia dei campi di sterminio, degli uomini-
numero, senza più nome e realtà, cui rimane solo la coscienza
e la memoria, irrompe, in tutta la sua cruda e spietata verità,
nella vita dei lettori. A questi due giganti della letteratura, ita-
liana ma non solo, seguirono bellissime storie di memoria della
Shoah, documenti strazianti ma straordinari per la ricostru-
zione storica di quel periodo.
E l’opera tutta di Giorgio Bassani, e in particolare il
Giardino
dei Finzi-Contini
, sta proprio al crocevia fra storia, testimo-
nianza e memoria. In un’intervista a Bassani, sul «Bollettino
della Comunità Israelitica di Milano» del giugno 1962, leg-
giamo: «Per terminare con le parole del Bassani, il romanzo
è una finta autobiografia, una finta confessione, una finta
meditazione; finta e vera nello stesso tempo. Micol è morta,
dice lo scrittore, ed io ho dedicato il libro a lei che fingo
essere vissuta.» È tutto finto ma è pur sempre tutto perfetta-
mente vero, in quel gioco fra memoria e storia che è tipico
della narrazione ebraica. Nulla è mai successo forse, dei fatti
e nei luoghi, nei loro minutissimi dettagli, frutto solo di fan-
tasia. Ma il clima, i grandi eventi, gli ambienti, la città e il
Paese in cui sono avvenuti, quelli sì non sono solo verosimili,
sono proprio veri. Per parafrasare Bialik e Ravnitzky, la
magna domus
dei Finzi-Contini è letteralmente un palazzo in
cui hanno vissuto e vivranno permanentemente lo spirito e
l’anima di alcuni Ebrei italiani.
La narrazione di Giorgio Bassani, infatti, si concentra sulla
storia di Ferrara e della sua Comunità ebraica, della quale egli
stesso faceva parte. In particolare – anche se con qualche
lungo passo indietro – sugli anni Venti e Trenta del secolo
scorso, la grande tragedia della strage del 15 novembre 1943
(che unì nella disgrazia e nel dolore tutti i ferraresi, ebrei e
non ebrei), la deportazione della gran parte dei componenti
della Comunità ebraica della città Estense e i primi anni del
secondo dopoguerra.
Nel
Giardino dei Finzi-Contini
vi è un continuo intrecciarsi e
sovrapporsi di memorie squisitamente personali, la storia
della città di Ferrara, quella della politica nazionale negli anni
oscuri del fascismo e quella della tragedia degli ebrei europei,
braccati come bestie o rinchiusi, meno di schiavi in attesa
solo della morte, nei campi di sterminio nazisti.
E nel 1962, quando il romanzo di Bassani venne pubblicato
per la prima volta, questi temi erano, per un verso, di gran-
dissima attualità: si era appena concluso a Gerusalemme il
processo ad Adolf Eichmann, l’organizzatore dello sterminio
scientifico degli ebrei europei, trasmesso integralmente dalla
radio israeliana e ripreso e seguito dalla stampa di tutto il
mondo. Eppure erano temi non trattati, le ferite troppo fre-
sche per non sanguinare ancora.
Ma l’arte di Bassani, di nuovo in questo tipicamente ebraica,
di alleggerire il dolore delle tragedie con qualcosa di ironico
o di lieve, come il racconto di un amore giovanile, ha reso
questo romanzo un successo memorabile.
Se è vero come dicevamo all’inizio che le favole, i racconti, le
tante voci che si intrecciano e rintracciano, acquistano una
forza immensa, trasformando tante storie in un grande mosaico
sfaccettato ma unitario, non solo ebraico ma universale, uno
dei pilastri della nostra Storia più recente sta nelle righe punti-
gliose, dettagliate e sofferte del romanzo Bassaniano.
*
Aggadah
oppure
Haggadà
(pl.
Aggadot
) è il nome tradizionale assegnato a
tutti gli insegnamenti non legali, dai sermoni ai racconti alle leggende, dei primi
Saggi dell’ebraismo Rabbinico. Letteralmente significa “Così è detto”.
madri di Woody Allen, che addirittura occupano, nell’episodio
da lui diretto in
New York Stories
, il cielo della Grande Mela;
o, ancora, ricordiamo tutti Charlton Heston come Mosè nel
film
I Dieci Comandamenti
di Cecil B. DeMille (1956), che
rompe, con immensa forza e vera furia, le tavole della Legge.
O l’ultima sigaretta, infinitamente fumata dal protagonista
nella
Coscienza di Zeno
di Italo Svevo. Ma persino in
Avatar
(J. Cameron, 2009) possiamo trovare – come dice Rabbi
Benjamin Blech, nel suo articolo pubblicato sul sito della
Yeshiva Aish haTorah
(aish.com), «
Avatar and the Jews. The
connections with Torah and Hebrew words are just too frequent
and striking to be accidental
.» – tantissimi riferimenti alla
mistica e al folclore ebraici. Solo per citare alcuni parallelismi: i
pacifici abitanti di Pandora si chiamano
Na’vi
, e la parola
ebraica
Navì
significa Profeta, colui che può vedere oltre; oppure
il grande albero al centro del mondo è similmente un’allegoria
per l’albero della vita posto nel cuore del Giardino dell’Eden; e
il dio adorato dai pandoriani si chiama
Eywa
, anagramma per la
traslitterazione (se pur del tutto ipotetica) del Tetragramma, il
Nome impronunciabile del Signore Iddio degli ebrei.
Gli storici avranno certamente da ridire: la memoria del pas-
sato, ancorché collettiva, non è storiografia. Ma – come dice
Yosef Hayim Yerushalmi in
Zakhor. Storia ebraica e memo-
ria ebraica
– gli ebrei non hanno avuto mai grande passione
per la storiografia, ma piuttosto per una memoria che si ripete
e si costruisce nei gesti quotidiani di una saggezza e un’etica
millenaria. Yerushalmi afferma tra l’altro: «L’Olocausto ha
generato finora più ricerche storiche di ogni altro fatto nella
Storia Ebraica, ma non ho alcun dubbio nell’affermare che la
sua immagine è stata forgiata non sull’incudine dello storico,
ma nel crogiolo del romanziere.»
Il caro, il dolce, il pio passato
In esergo alla loro
Italian Literature. A very short introduc-
tion
(Oxford university Press, 2012), Peter Hainsworth e
David Robey pongono la frase tratta dal
Giardino dei Finzi-
Contini
di Giorgio Bassani «Il caro, il dolce, il pio passato.»
E proprio dal Giardino prendono avvio per raccontare la sto-
ria della letteratura italiana.
Il contributo di scrittori e poeti ebrei alla letteratura del nostro
Paese è stato immenso, sopratutto dall’emancipazione
ebraica del 1848 in avanti. Ma anche nel passato meno
recente si possono notare continui rimandi tra la scrittura di
autori ebrei e quella più generalmente italiana: ad esempio,
oltre al già citato Manoello Romano, nel Rinascimento tro-
viamo il modenese Leone Ebreo con i suoi
Dialoghi d’amore
e nel Settecento, Lorenzo da Ponte (convertito solo per con-
venienze sociali) con i suoi libretti d’opera delle
Nozze di
Figaro
,
Così fan tutte
e
Don Giovanni
. Questo catalogo però
non può essere un’antologia scolastica: mi limiterò, perciò,
quasi solo ad un elenco di grandissimi autori di fine
Ottocento e del Novecento, che hanno segnato, con le loro
opere, momenti di svolta nella letteratura del nostro Paese.
Cominciamo, per via più della memoria di chi scrive che
della cronologia che inevitabilmente si sovrappone, con una
donna, Amelia Pincherle Rosselli, che con in suo dramma
Anima
vince, il 29 ottobre 1898, il Concorso drammatico
dell’Esposizione Nazionale ed è la prima donna italiana
autrice di teatro, in assoluto, ad essere rappresentata in un
teatro nazionale. Il suo secondo dramma,
Illusione
, va in
scena il 26 gennaio 1901 al Teatro Carignano di Torino. È
autrice, fra l’altro, anche di commedie in dialetto veneziano
(
El rèfolo
e
El socio del papà
) e di libri per bambini
(
Topinino
e
Topinino, garzone di bottega
); del dopoguerra le
sue struggenti
Memorie
, dove la vita famigliare e la Storia si
intrecciano con dolore e infinita maestria.
Pochi anni prima, nel 1892, sempre per l’editore Treves che
poi pubblicherà anche Amelia Pincherle Rosselli, Italo Svevo
(pseudonimo di Aron Ettore Schmitz) dà alle stampe
Una Vita
a cui seguiranno
Senilità
(1898) e
La coscienza di Zeno
(1923).
La bibliografia di umberto Saba è sterminata e nota a tutti,
basti dire che è fra gli autori italiani che hanno rivoluzionato
prosa e poesia.
Alberto Moravia (pseudonimo di Alberto Pincherle: era figlio
di un fratello di Amelia), pubblica nel 1929 quello che viene
considerato uno dei primi romanzi moderni:
Gli indifferenti
.
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