Scheda: Soggetto - Tipo: Persona

Benvenuta, Nuta, Ascoli (Ferrara, 1873-1941)

Benvenuta Ascoli ritratta davanti al suo negozio di via Mazzini. Fotografia tratta da Rivista di Ferrara, n. 7, anno III, luglio 1935.

Nuta Ascoli è la proprietaria di una conosciuta gastronomia kasher in via Mazzini. Fra le sue specialità le buricche e il caviale del Po, che veniva esportato anche all’estero. Giorgio Bassani la cita nel suo “Giardino dei Finzi-Contini” cambiando il suo nome in Betsabea da Fano.


Nascita: 1873

Morte: 1941

1. Le ‘delicatezze’ della Nuta

Al numero 62 di via Mazzini fino agli anni Trenta del Novecento ha il suo negozio di gastronomia kasher la signorina Benvenuta Ascoli, conosciuta da molti come ‘la Nuta’, figlia di Lodadio Ascoli, residente insieme alla sorella Elisa nella casa-laboratorio poco distante, in via della Vittoria. Il suo è già allora un negozio d’altri tempi, “una piccolissima bottega di leccornie ebraiche” (Bassani Liscia 2000, p. 37). Fra le specialità della Nuta: la ‘bongola’, una rivisitazione kasher della salama da sugo fatta con la carne di manzo, salami e prosciutti d’oca. Ma la Nuta Ascoli è famosa soprattutto per le buricche e il caviale del Po.

2. Le buricche (o i buricchi)

L’origine di questa pasta ripiena risale probabilmente all’emigrazione degli ebrei sefarditi in fuga da Spagna e Portogallo nel Cinquecento. Il nome potrebbe derivare dalla boreka turca, mentre il ripieno dolce o salato richiama appunto le empanadas spagnole e portoghesi: per quello dolce si usano le mandorle tritate con una mandorla amara, zucchero e buccia di limone, mentre quello salato può essere fatto con carne lessa di vitellone o manzo, di pollo, o con fegatini.

3. Il caviale del Po: la ricetta originale di Cristoforo da Messisbugo

La storia del caviale del Po inizia con le ricette preparate da Cristoforo da Messisbugo per la corte di Alfonso I d'Este e poi di Ercole II d'Este, in particolare quella del ‘caviaro per salvare’ contenuta nel “Libro novo nel qual si insegna a far d'ogni sorte di vivanda”, pubblicato a metà Cinquecento. Scrive Messisbugo: “Piglia l’ova dello storione, e come più sono nere sono migliori; e distrigale su una tavola con la costa del coltello nettandole bene da quelle pellegate, e pesale, e per ogni libbre 25 d’uova, gli ponerai oncie 12 e mezza di sale, cioè oncia mezza per libbra d’uova”. Dopo averle lasciate così per una notte e stese su un asse di legno con sponde, “le ponerai nel forno che sia onestamente caldo, per spazio di due pater nostri; poi le caverai fuori e le mescolerai molto bene con una palettina di legno e le ponerai un’altra volta in forno, lasciandogliele come detto sopra”. Perché il caviale si possa conservare il Messisbugo raccomanda di porlo sopra vasi di pietra “bene invitriati” e “quando serà gran caldo, per ogni vinti giorni bisognerà levargli quella telarina che darà di sopra: e gli aggiungerai un poco d’olio”.

4. La disputa di Isacco Lampronti

Lo si ritrova poi due secoli dopo nel “Pahad Izhak” (Timore di Isacco), l’enciclopedia talmudica di Isacco Lampronti pubblicata a Venezia tra il 1750 e il 1753. Alla voce ‘pesci’ (daghim) il dotto rabbino ferrarese dibatte il problema della kasherut (norme alimentari ebraiche) dello storione: il problema è che lo storione ha le pinne come prescrive il Levitico, ma le scaglie sono ossee e assomigliano quindi più a placche, per di più non semplici da togliere, che a squame di semplice rimozione come indica la Legge. Lampronti si confronta con rabbini più anziani e stabilisce che a Ferrara non è vietato il consumo del “copese”, cioè lo storione copice, una delle varietà allora diffuse nel Po.

5. Il caviale della Nuta

Si arriva così a Lodadio Ascoli, il padre della Nuta, che a fine Ottocento nel suo negozietto di via Mazzini, preparava il caviale cotto con una ricetta forse derivata da quella cinquecentesca di Cristoforo da Messisbugo. Il laboratorio dove Benvenuta Ascoli prepara il caviale è al piano terreno della casa in via della Vittoria: “Il forno è pronto e la Nuta prende la cassetta e l’affida a un ragazzo che la spinge nel forno caldissimo. Addio cassetta, penso io e chiunque vedesse una tale operazione. La Nuta, che ha indovinato il mio pensiero, mi rassicura dicendomi che non abbia timore pe la cassetta perché è di un legno tanto speciale che dal 1860 ad oggi non si è ancora bruciata” (Canella 1935, p. 322). Nuta non sa dire dove suo padre abbia imparato, lei riesce a produrne alcuni quintali l’anno e a esportarlo anche in Svizzera. “Il guaio si è che la Nuta sola conosce il segreto di fabbricazione a memoria e se, per combinazione, le capitasse un momento di amnesia addio fichi, anzi, addio caviale. Ma c’è di peggio! Che la Nuta non ha per il momento nessunissima intenzione di tramandare ai posteri la formula di preparazione” (Canella 1935, p. 322). Non è stato così: durante le ricerche per “La signora del caviale” (Firenze, Cult Editore) Michele Marziani scopre che il notaio e gastronomo ferrarese Roberto Brighenti ha ritrovato la ricetta del caviale della Nuta presso la Comunità ebraica di New York e alla sua morte l’ha tramandata alla sua cuoca Giuseppina Bottoni.

6. La rinascita di un’antica tradizione gastronomica

Proprio durante una delle presentazioni del libro di Michele Marziani Giuseppina Bottoni incontra Cristina Maresi, che insieme al marito gestisce un agriturismo a Runco, vicino a Portomaggiore, vicino Ferrara. Ora mancavano gli storioni e le loro uova, perché dagli anni Cinquanta a causa soprattutto dell’inquinamento dello storione del Po è rimasta solo la memoria. Giuseppina e Cristina trovano un allevatore nella Marca Trevigiana che decide di aiutarle: così rinasce la ricetta del caviale ferrarese.

7. Testimonianze

“‘Nuta’?! ma sì che l’avete veduto tante volte quel piccolo negozietto in via Mazzini, piccolino, piuttosto scuro. Credo sia l’unica bottega che conserva ancora tutto il colore del Ghetto ferrarese. Sopra la porta stretta, che quasi si nasconde nel muro, c’è una targa rossa bruna con scritto ‘Nuta’. Guardando attraverso il vetro della mostra si vedono catinelle, tegami, focacce strane, salami mai visti e dietro tutto ciò il buio. Non è difficile che sulla porta della bottega capiti di notare una donnina dal viso rotondo e simpatico che guarda attraverso due occhietti rotondi di colore indefinibile. Ebbene questa figurina è la Nuta, quella che fa il caviale e il salame d’oca. Si può entrare nel suo negozio e allora ci si accorge che è diverso da qualunque altro: un banco vecchio, vecchissimo, oggetti come se ne trovano nei nostri ricordi primi e lontani. […] Basta restar dalla Nuta una mezz’ora, anche meno, e piano piano senza accorgersene si è trasportati indietro nel tempo: via Mazzini diventa il Ghetto dove gli operosi ebrei ferraresi commerciavano e vivevano famigliarmente”. (Canella Arlodo, Storione più Nuta uguale a caviale, in “Rivista di Ferrara”, n° 7, anno III, luglio 1935, p. 322)

“Era stracolmo, il vassoio: di panini imburrati all’acciuga, al salmone affumicato, al caviale, al fegato d’oca, al prosciutto di maiale; di piccoli vol-au-vents ripieni di battuto di pollo misto a besciamella; di minuscoli buricchi usciti certo dal prestigioso negozietto cascèr che la signora Betsabea, la celebre signora Betsabea (da Fano) conduceva da decenni in via Mazzini a delizia e gloria dell’intera cittadinanza”. (Bassani Giorgio, “Il Giardino dei Finzi-Contini”, Milano, Mondadori, 2001, pp. 70-71)

“Per metterla a punto l’ex-cuoca del notaio Brighenti, ovvero l’erede della ricetta originale, Giuseppina Bottoni e Cristina Maresi fanno le alchimiste […] Gli assaggi, annata dopo annata, mostrano progressi sempre maggiori. Si crea una piccola comunità, quasi una setta segreta, di buongustai provenienti da tutta Italia (e non solo dall’Italia) che partecipa a questa rinascita gastronomica”. (Marziani Michele, Il caviale del Po, una storia ferrarese, Ferrara, 2G editrice, 2013, p. 42)

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Ente Responsabile

  • Istituto di Storia contemporanea di Ferrara

Autore

  • Federica Pezzoli
  • Sharon Reichel