Scheda: Luogo - Tipo: Edifici monumentali

Cimitero ebraico di via delle Vigne

Cimitero di via delle Vigne. Fotografia di Sandra Dvornanova, 2014. © MEIS

Il cimitero ebraico di via delle Vigne, tutt’ora in uso, è il più antico dell’Emilia Romagna, insieme a quello di Finale Emilia. Situato a ridosso di un ramo delle mura estensi, è uno dei luoghi più suggestivi dell'Addizione Erculea di epoca rinascimentale.

 


Lat: 44.843490 Long: 11.630226

Progetto: 1626
Acquisto del primo lotto di terreno da parte della Comunità ebraica di Ferrara

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  • Ferrara ebraica

Monumento funebre a Giorgio Bassani

Tra le personalità sepolte in questo cimitero, vi è Giorgio Bassani (Bologna, 4 marzo 1916 - Roma, 13 aprile 2000), ricordato dal 2003 dal monumento (http://www.museoferrara.it/edit/s/6ea793e6c13a466aa5059cce1a5ebc78) realizzato dallo scultore Arnaldo Pomodoro e dall’architetto Piero Sartogo.

Le origini incerte

Gran parte della storiografia pone l’inizio dello sfruttamento dell’area di via delle Vigne nel 1626, quando gli ebrei ferraresi chiedono a Urbano VIII il permesso di acquistare un terreno per le proprie sepolture: la licenza ottenuta prescrive che il luogo loro assegnato non superi le 20 staia ferraresi e sia indicato dal vescovo locale o dal vicario. Tuttavia la lapide più antica del cimitero, intitolata a David Franco, che riporta come data di morte l’anno 1549, avvalora la tesi degli studiosi che sostengono che questo potrebbe risalire al XVI secolo.

La struttura

Il cimitero può essere ripartito in cinque zone principali, risultato di acquisizioni successive:

  • la lunga area rettangolare appena oltre il portale d’ingresso, risalente al consistente restauro dei primi del Novecento a opera dell’architetto ebreo ferrarese Ciro Contini, raccoglie le sepolture più recenti: dagli inizi del Novecento a oggi;

  • l’area introdotta dal viale alberato che conduce alla camera mortuaria, dedicata alle vittime delle deportazioni, ospita per lo più lapidi ottocentesche;

  • la radura erbosa a sinistra dell’area precedente è stata usata nel Settecento e restano oggi visibili solo poche lapidi a causa delle disposizioni papali che ne impediscono l’apposizione nei cimiteri ebraici, ma anche della distruzione operata dall’Inquisizione nel 1755;

  • sul lato est si trovano ancora sepolture ottocentesche, con alcune lapidi appoggiate o incastonate nel muro di cinta e altre disposte a terra;

  • sullo stesso lato un’area di forma quasi triangolare che ospita la tomba di Giorgio Bassani e il monumento a lui dedicato dallo scultore Arnaldo Pomodoro.

Delle circa 800 lapidi del cimitero, poco più di cento sono in ebraico, mentre le altre recano iscrizioni in italiano o sono bilingui.

Testimonianze

“…nel raccoglimento del cimitero ebraico, in via delle Vigne, dove avviene la funzione per la sepoltura di Ernest Nadasi, nato a Pecel in Ungheria nel 1912. Prigioniero in un lager per tre anni durante la guerra, in seguito a Ferrara viene a trovare alcuni ex compagni di prigionia, e proprio qui vive la sua storia d’amore con una giovane di religione cattolica che diventerà sua moglie e si convertirà all’ebraismo. Poi il trasferimento negli USA, a Hollywood, dove Ernest, oltre ad insegnare matematica all’università, continuerà l’attività musicale, lui che era stato cantore d’una comunità nel suo paese. A Ferrara ha voluto essere sepolto, in questo silenzio così dolce, dove l’idea che predomina è quella del rispetto ottenuto perché meritato, dove tutto contribuisce alla nobile bellezza di immagini insostituibili. […] procediamo verso l’uscita da questo luogo non di paura, ma poesia, fiducia, tra suoni sommessi, quiete per un istante raggiunta, piante e fiori ora fradici ma ben presto, al soprassalto di nuovo tepore, ancora più suggestivi nella loro infinità umiltà”. (Gianfranco Rossi, in Ravenna 1998)

 

Nella letteratura

Una delle descrizioni più alte di questo cimitero, la offre la penna di Giorgio Bassani nel suo romanzo Gli occhiali d’oro. In quella visione, dall’alto delle Mura degli Angeli, tutto, nel silenzio e nella luce del tramonto, sembra trovare la giusta collocazione, restituendo all’io narrante – e, dietro lui, all’autore – un senso di profonda pacificazione.

«Finii verso sera sulla Mura degli Angeli, dove avevo passato tanti pomeriggi dell’infanzia e dell’adolescenza; e in breve, pedalando lungo il sentiero in cima al bastione, fui all’altezza del cimitero israelitico.

Scesi allora dalla bicicletta e mi addossai al tronco di un albero.

Guardavo al campo sottostante, in cui erano sepolti i nostri morti. Fra le rare lapidi, piccoli per la distanza, vedevo aggirarsi un uomo e una donna, entrambi di mezza età: probabilmente due forestieri fermatisi fra un treno e l’altro – mi dicevo – se erano riusciti a ottenere dal dottor Levi la dispensa necessaria per visitare il cimitero di sabato. Giravano tra le tombe con cautela e distacco da ospiti, da estranei. Quand’ecco, guardando a loro e al vasto paesaggio urbano che mi si mostrava di lassù in tutta la sua estensione, mi sentii d’un tratto penetrare da una gran dolcezza, da una pace e una gratitudine tenerissime. Il sole al tramonto, forando una scura coltre di nuvole basse sull’orizzonte, illuminava vivamente ogni cosa: il cimitero ebraico ai miei piedi, l’abside e il campanile della Chiesa di San Cristoforo poco più in là, e sullo sfondo, alte sopra la bruna distesa dei tetti, le lontane moli del Castello Estense e del Duomo. Mi era bastato recuperare l’antico volto materno della mia città, riaverlo ancora una volta tutto per me, perché quell’atroce senso di esclusione che mi aveva tormentato nei giorni scorsi cadesse all’istante. Il futuro di persecuzioni e di massacri che forse ci attendeva (fin da bambino ne avevo continuamente sentito parlare come di un’eventualità per noi ebrei sempre possibile), non mi faceva più paura.»

(G. Bassani, Gli occhiali d’oro, in Opere, Il romanzo di Ferrara, Mondadori, Milano 2001, p. 284s.)

 

 

 

In questo cimitero, nella sua reinvenzione letteraria, Giorgio Bassani colloca la tomba della famiglia più famosa del suo Romanzo di Ferrara: quella dei Finzi-Contini. Simbolo della famiglia anche nella sua imponenza, è citata nel prologo e dettagliatamente descritta all’apertura del primo capitolo.

 

«[…] Ancora una volta, nella quiete e nel torpore […], io riandavo con la memoria agli anni della mia prima giovinezza, e a Ferrara, e al cimitero ebraico posto in fondo a via Montebello. Rivedevo i grandi prati sparsi di alberi, le lapidi e i cippi raccolti più fittamente lungo i muri di cinta e di divisione, e, come se l’avessi addirittura davanti agli occhi, la tomba monumentale dei Finzi-Contini: una tomba brutta, d’accordo – avevo sempre sentito dire in casa, fin da bambino –, ma pur sempre imponente, e significativa non fosse altro che per questo dell’importanza della famiglia. […]»

(G. Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini, in Opere, Il romanzo di Ferrara, Mondadori, Milano 2001, p. 322)

 

«La tomba era grande, massiccia, davvero imponente: una specie di tempio tra l’antico e l’orientale, come se ne vedeva nelle scenografie dell’Aida e del Nabucco in voga nei nostri teatri d’opera fino a pochi anni fa. In qualsiasi altro cimitero, l’attiguo Camposanto Comunale compreso, un sepolcro di tali pretese non avrebbe affatto stupito, ed anzi, confuso nella massa, sarebbe forse passato inosservato. Ma nel nostro era l’unico. E così, sebbene sorgesse assai lontano dal cancello d’ingresso, in fondo a un campo abbandonato dove da oltre mezzo secolo non veniva sepolto più nessuno, facevo spicco, saltava subito agli occhi.

Ad affidarne la costruzione a un distinto professore d’architettura, responsabile in città di molti altri scempi contemporanei, risulta essere stato Moisè Finzi-Contini, bisnonno paterno di Alberto e Micòl, morto nel 1863 poco dopo l’annessione dei territori delle Legazioni pontificie al Regno d’Italia, e la conseguente, definitiva abolizione anche a Ferrara del ghetto per gli ebrei. […] Molto probabile che al distinto professore d’architettura fosse stata data carta bianca. E con tanto e simile marmo a disposizione, candido di Carrara, rosa-carne di Verona, grigio maculato di nero, marmo giallo, marmo blu, marmo verdino, costui aveva […] decisamente perduto la testa.

Ne era venuto fuori un incredibile pasticcio in cui confluivano gli echi architettonici del mausoleo di Teodorico di Ravenna, dei templi egizi di Luxor, del barocco romano, e persino, come palesavano le tozze colonne del peristilio, della Grecia arcaica di Cnosso. Ma tant’è. A poco a poco, anno dopo anno, il tempo che, a suo modo, aggiusta sempre tutto, aveva provveduto lui a mettere accordo in quell’inverosimile mescolanza di stili eterogenei.»

(G. Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini, in Opere, Il romanzo di Ferrara, Mondadori, Milano 2001, p. 323s.)

 

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Ente Responsabile

  • Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara
  • Assessorato alla Cultura e al Turismo, Comune di Ferrara

Autore

  • Federica Pezzoli
  • Sharon Reichel
  • Barbara Pizzo