MEIS versione Beth[a] all'inizio di un percorso lungo 22 secoli - page 32-33

Enzo ed Emilio Sereni nacquero a Roma, rispettivamente nel 1905 e nel
1907. Il padre, Samuele detto Lello, era medico della Casa Reale; la madre
si chiamava Alfonsa Pontecorvo.
I due fratelli Sereni crebbero in una famiglia borghese, molto impegnata
nel mondo ebraico (il fratello di Lello, Angelo, fu a lungo presidente della
Comunità ebraica romana) ma profondamente laica. Enzo ed Emilio,
detto Mimmo, studiarono Talmud Torà, al compimento dei 13 anni cele-
brarono il
Bar Mizvà
ed entrambi furono piuttosto osservanti, in special
modo Mimmo, che nella sua prima giovinezza non si radeva il viso, osser-
vava tutti i precetti dello
Shabbath
e quelli della
kasheruth
. Enzo ed Emilio,
prima dei vent’anni, aderirono al nascente movimento sionista-socialista e
decisero che avrebbero fatto assieme l’
Alià
.
Enzo partì nel 1927 con la moglie Ada Ascarelli e la prima figlia di pochi
mesi. Parteciparono alla fondazione di uno dei primi
kibuzzim
, Givat
Brenner, pochi ettari di terra riarsa dal sole da far fiorire. Emilio, però,
tradì le aspettative di Enzo, non fece l’
Alià
e restò a combattere in Italia il
fascismo, che ormai mostrava il suo volto, sempre più oscuro e violento.
Per anni si disse che, dopo la decisione di Emilio di non andare in
Palestina e una lettera di Enzo del 4 febbraio 1928, i due fratelli furono
separati per sempre, il silenzio definitivo. Invece, alla fine degli anni
Novanta, Jacov Viterbo, curatore degli archivi di Givat Brenner, ritrovò
una busta con quasi tutte le lettere che i due fratelli si erano scambiati fino
a quando le circostanze storiche glielo avevano consentito. Sono lettere di
affetto, in cui la politica non manca mai, in cui il bisogno di questi due
uomini di trovarsi ancora simili si percepisce in modo quasi fisico.
Sono missive in cui l’ebraico alternato all’italiano si fa sempre più codice
segreto per passare la censura fascista. Nella lettera del 6 giugno 28 di
Emilio a Enzo che esponiamo, si legge traducendo l’ebraico: «Qui hanno
preso molte persone tra i nostri amici, hanno fatto perquisizioni da Tullio
(dove non hanno trovato niente) e da Amendola […] Hanno arrestato
Max Ascoli, ma dopo alcuni giorni lo hanno liberato. Hanno preso
Santino Caramella, Vinciguerra, Basso. E molti altri che resteranno in
galera per molti anni. […] Ma i fascisti in questomomento non si sentono
dentro di loro molto bene.» Sempre in ebraico Emilio aveva annunciato a
Enzo la sua entrata nel Partito Comunista.
Emilio venne arrestato nel 1930 e condannato a 20 anni di galera (poi
ridotti a 15). Amnistiato nel 1935, l’anno dopo espatriò clandestinamente
in Francia. Durante la guerra rientrò in Italia e venne nuovamente arre-
stato e condannato a morte. Riuscì a fuggire dal braccio della morte delle
carceri nuove di Torino e, in clandestinità, guidò il CLN-Alta Italia
assieme a Leo Valiani e Sandro Pertini, con i quali firmò l’ordine di insur-
rezione nazionale. Costituente, Ministro ai Lavori Pubblici e
all’Assistenza post bellica, senatore e poi deputato per il PCI, morì a Roma
il 20 marzo 1977.
Enzo, nel frattempo promosso dirigente del movimento sionista-sociali-
sta, fu inviato alla metà degli anni Trenta come emissario in Europa e negli
Stati Uniti. In Germania riuscì a far espatriare molti ragazzi salvandoli così
da morte certa. Fu poi mandato in Iraq per fare altrettanto, ma con meno
fortuna. Si arruolò nell’esercito britannico e dall’Egitto fu redattore del
periodico di propaganda antifascista in italiano. Nel 1944 fu fra i primi ad
arruolarsi nella cosiddetta Brigata Ebraica. Paracadutato oltre le linee
naziste, venne catturato in Toscana nel maggio 1944. Transitando per il
carcere di Verona e il campo di concentramento di Bolzano, fu deportato
per motivi “politici” a Dachau. Come fu burocraticamente annotato sul
registro del campo, il capitano Shmuel Barda, Enzo Sereni, nome in
codice “Haim” (vita) fu “estinto” il 18 novembre 1944.
Si vedano Liliana Picciotto,
Il libro della memoria: gli ebrei deportati dall’Italia,
1943-1945
, Milano 2011 e Clara Sereni,
Il gioco dei regni
, Firenze 1993.
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Primo Levi in
Argon
, il delizioso racconto di apertura del
Sistema
Periodico
(Torino 1975), descrive i suoi “vecchi” attraverso la parlata
giudaico-piemontese – la lingua di casa usata principalmente dalle
donne, ma anche dagli uomini – un misto di dialetto e di parole ebrai-
che, spesso italianizzate nella desinenza, che serviva un po’ come
codice segreto incomprensibile per gli estranei non ebrei e spesso
anche per i piccoli di famiglia, non ancora iniziati a questa terminolo-
gia “criptica”, misteriosa, talvolta sibillina. Certamente ironica, fin dal
nome:
Lassòn Ha-Kodesh
, storpiatura di
Lashon ha-Kodesh
, significa
letteralmente “lingua santa” e ben poche lingue riescono a essere più
profane di questa sorta di dialetto, infarcito di giochi di parole, impre-
cazioni e insulti ironici.
Nel corso dei secoli in tutta Italia queste parlate si sono sviluppate,
all’interno e fuori dai ghetti mescolando gerghi locali con termini
ebraici più o meno modificati. Alcune hanno avuto strutture propria-
mente linguistiche, come il Bagitto livornese che, oltre all’ebraico, ha
importato numerose strutture semantiche spagnole, lingua d’origine
degli ebrei sefarditi che risiedevano nella città toscana. Talvolta que-
sti dialetti hanno avuto esiti letterari, come nel caso già citato di
Primo Levi o, per il vernacolo degli ebrei di Roma, nei sonetti di
Crescenzo Del Monte, composti alla fine dell’Ottocento proprio per
fotografare una società, quella del ghetto da poco liberato, di cui si
andavano rapidamente perdendo usi, costumi e gergo.
Alcuni tratti sono assolutamente comuni a tutte le parlate: cambia
l’accento, proprio del luogo di residenza. Così se in giudaico-roma-
nesco, festa si dice
mongédde
, in piemontese si dice
mogned
e in mode-
nese
mued
. Anche Rabbino è uguale: con cadenza diversa, ma si dice
sempre
Moreno
, nostro Maestro.
Hasiruth
(da maiale,
hazir
) vale per
porcheria, schifezza. “Dabra Dàvar” (parla parola, letteralmente), sta
per stai zitto, come “far sciadock” (da
shecket
, silenzio): in casa mia si
diceva «fai sciadock per via del toc», quando si voleva far tacer qual-
cuno perché il discorso era inadatto ai bimbi presenti (
toc
, in molti
dialetti del nord Italia: piccolo pezzo, bimbo). E rendere omaggio,
festeggiare qualcuno in giudaico-romanesco si dice “dare cavodde”
(da
kavod
, onore), praticamente identico ai “far kavod” del piemon-
tese e del modenese.
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Lassòn Ha-Kodesh: le parlate giudaico-italiane
Grande Storia, grandi storie: «Battiti in favore dei poveri e di coloro che hanno bisogno»
(Prov. 31, 9)
Dante Alighieri,
La Divina Commedia.
Inferno.
Traduzione in ebraico di
Saul Formiggini, Trieste,
1869
Torino, Biblioteca
Emanuele Artom della
Comunità Ebraica di
Torino
Saul Formiggini ha lavorato anche
alle altre due cantiche della
Commedia
, lasciando i manoscritti
inediti della traduzione del
Purgatorio
e del
Paradiso
.
lettera di Emilio Sereni al fratello
Enzo, Roma, 6 giugno 1928 (in
Politica e utopia: lettere 1926-1943
,
Milano 2000)
La lettera è parte del carteggio dei due fratelli Sereni
(1926-1943), oggi conservato in Israele: non è stato
possibile esporre in mostra e documentare in catalo-
go la missiva originale a causa di ragioni conservative.
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